MILANO – Dell’importanza che gli oceani hanno sull’ecosistema terreste poco si è parlato negli ultimi anni. Se è vero che è cresciuta la sensibilizzazione nei confronti della protezione della biodiversità all’insegna della sostenibilità, è anche vero che l’attenzione verso la natura marina – oltre quelle che potremmo definire le nostre Colonne d’Ercole – è sempre stata meno accentuata. L’approvazione lo scorso 5 marzo del trattato delle Nazioni Unite sulla protezione degli oceani è un grandissimo passo avanti verso la salvaguardia del Pianeta, e per questo un’occasione che non dovrà essere sprecata.
L’importanza degli oceani nel sistema globale
Si sa: gli oceani sono un ecosistema enorme, circa la metà della superficie terrestre. Ciò che pochi sanno, tuttavia, è l’enorme impatto che questi hanno sul Pianeta e sul riscaldamento globale.
Gli oceani contribuiscono ad assorbire circa il 20%-30% della CO2, così come alla regolazione del bilancio termico della Terra. È grazie, infatti, alle correnti marine che il calore viene trasportato dalla zona equatoriale ai Poli. Questo processo di assorbimento può essere però compromesso dai cambiamenti climatici che modificano la circolazione oceanica e la composizione chimico-fisica, con enormi conseguenze sulla sopravvivenza delle diverse speci che popolano gli habitat marini. Ma non solo: l’Istituto Oikos sottolinea come la salute degli oceani cotnribuisca a dare sostentamento a intere comunità offrendo non solo cibo, ma anche lavoro.
Recenti studi dimostrano che il valore annuo stimato dell’economia oceanica è di 2,5 trilioni di dollari negli USA; 2/3 del prodotto marino lordo globale si basano su un oceano sano; 500 milioni di persone dipendono dalle risorse costiere per l’alimentazione.
Cosa prevede l’High Seas Treaty
Ma cosa prevede il nuovo trattato ONU sulla protezione degli oceani e perché è così importante?
Il 70% delle acque viene etichettato come acque internazionali e di conseguenza sotto la protezione di nessuno. Al di là delle Zone Economiche Esclusive degli stati rivieraschi, che possono arrivare ad un massimo di 370 chilometri dalle coste, si trova l’Alto Mare, cioè tutto ciò che non è né acqua territoriale né è soggetto ad esclusività dal punto di vista economico. Si tratta di una zona in cui vige il diritto degli Stati di svolgere le proprie attività, tra cui la pesca, la navigazione e la ricerca, ma che al tempo stesso è fondamentale per la biodiversità. Ma quindi, chi lo protegge e chi se ne occupa?
È proprio questo l’obiettivo del High Seas Treaty approvato dalle Nazioni Unite dopo ben 10 anni di negoziati e due settimane di lunghe trattative. L’ultimo accordo sulla protezione risale a circa 40 anni fa – La Convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare – e i motivi di tale attesa sono da ricercare soprattutto nei mancati accordi sui finanziamenti e sui diritti di pesca.
Il trattato ha come fine ultimo quello di far diventare area protetta il 30% dei mari entro il 2030. Si prevede, infatti, l’imposizione di alcuni limiti soprattutto all’attività di pesca e alla navigazione, così come alle pratiche di estrazione mineraria, estremamente dannose per la biodiversità marina.
Come riporta il The Guardian, l’High Seas Treaty introduce un quadro giuridico per la creazione di vaste aree marine protette per la protezione della fauna selvatica e la condivisione delle risorse genetiche dell’alto mare, così come la conferenza delle parti (Cop) responsabile delle questioni di governance e biodiversità.
Il trattato è stato ben accolto anche dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che lo ha commentato definendolo una “vittoria del multilateralismo e degli sforzi mondiali per contrastare le pratiche distruttrici che minacciano la salute degli oceani, oggi e per le generazioni a venire”.
Di Elena Parodi