Il problema idrico e le sue implicazioni economiche, sociali e politiche secondo Marta Antonelli e Francesca Greco
MILANO - In un mondo di risorse limitate porsi degli interrogativi riguardo i nostri stili di vita e i nostri consumi è necessario. E’ con questo intento che le Dott.sse Marta Antonelli e Francesca Greco, dottorande del dipartimento di Geografia del King’s College di Londra hanno spiegato nel loro saggio “L’acqua che mangiamo” il problema idrico e le sue implicazioni economiche, sociali e politiche. Ecco il loro punto di vista sulla questione.
Come è nato il Vostro libro “L’acqua che mangiamo” ? E con quale scopo?
Circa 700 milioni di persone in 43 paesi sono colpiti dalla scarsità d’acqua e si prevede che, nel 2025, due terzi della popolazione mondiale potrebbero vivere in condizioni di ridotto accesso all’acqua. Ed è soprattutto l’acqua virtuale, cioè quella necessaria alla produzione di beni agricoli, che rischia di prosciugare i paesi del Sud del mondo, sui quali gravano i consumi crescenti delle economie più abbienti. Il volume L’acqua che mangiamo raccoglie, in una cornice multidisciplinare, gli studi dei più grandi esperti italiani in materia di acqua e cibo allo scopo di raccontare ciò che sta dietro al prodotto e a ciò che portiamo sulla nostra tavola, per riscoprirne il valore e apprezzare il contributo della natura. Il libro è nato con lo scopo di portare in Italia questo importante filone di ricerca che è già ampiamente apprezzato a livello internazionale.
Quanto può incidere il proprio regime alimentare sul consumo idrico ? Quali sono gli alimenti per la cui produzione è richiesta una maggiore quantità di acqua?
I consumi alimentari, collettivi e individuali, rappresentano la parte più consistente della nostra impronta idrica, un indicatore che, in analogia con il concetto di impronta ecologica, indica la quantità di acqua dolce consumata o inquinata - in una determinata area geografica e in un dato periodo di tempo - da un individuo, in una nazione o da un’impresa. I prodotti più dispendiosi dal punto di vista idrico sono quelli di origine animale – come carne, uova o latte. Ciò che determina la sostenibilità idrica di un prodotto tuttavia, non è solo la quantità di acqua necessaria a produrlo ma, soprattutto, la tipologia di acqua utilizzata. Le abitudini alimentari influenzano quindi in maniera sostanziale l’impronta idrica delle persone.
Qual è la vostra proposta per far conoscere con più facilità ai consumatori gli alimenti a maggior impatto idrico?
I cittadini e i consumatori cambierebbero i loro modelli di consumo se fossero a conoscenza della provenienza e degli impatti dei cibi che mangiano. La nostra proposta, a livello di risultato “ideale”, sarebbe quella di avere un’etichettatura di tutti i prodotti che consumiamo e che mangiamo, che spieghi il nostro impatto sul mondo. Un’ etichetta, per esempio, che al posto di farci vedere i carboidrati e i grassi dei cibi, ci indichi quanta acqua, aria , terra e forza lavoro sono stati impiegati per produrli e se queste risorse sono state impiegate in modo sostenibile da un punto di vista sia ambientale che etico. Il nostro principio è molto semplice: non tutte le gocce d’acqua sono uguali. Alcune sono parte di corpi idrici rinnovabili,che vengono “ricaricati” con pioggia e neve, altre provengono da falde acquifere antichissime , che una volta sfruttate, non si riempiranno di nuovo se non a distanza di 30.000 anni e più. Ottenere la sostenibilità di tutti i fattori di produzione “come un tutt’uno” , in ogni prodotto, è la vera sfida da lanciare . Speriamo di contribuire a questo “lancio” col nostro lavoro sull’acqua.
Qual è la sensibilità dimostrata dalla popolazione italiana rispetto al tema del risparmio idrico? E all’estero?
La popolazione italiana è secondo me sensibilizzata al risparmio idrico per via della molte campagne condotte dalle scuole e dalle istituzioni, nel settore della cosiddetta “acqua domestica”. Buone pratiche di uso domestico sono ormai ritrovabili ovunque; il punto è che in Italia consumiamo una media di 125 litri di acqua al giorno per uso domestico, ma quasi 3000 per uso alimentare, sotto forma di acqua virtuale. E non lo sappiamo perché non ci sono campagne sul consumo di acqua virtuale che abbiano raggiunto le grandi platee. All’estero è molto diverso. In Nord Europa, per esempio, il WWF UK e il WWF International hanno socializzato i concetti di acqua virtuale e impronta idrica in modo capillare, anche nelle scuole, e una sensibilità è iniziata a nascere.
Aggiornato il 3 ottobre 2013