MILANO - I Millenials e la Gen Z sono le generazioni più sensibili ai temi della sostenibilità. Negli ultimi anni hanno contribuito ad una piccola rivoluzione nell’ambito della moda, facendo prosperare il mercato del second-hand. Il vintage e i parametri dettati dall’economia circolare potrebbero essere la soluzione per un mercato della moda più sostenibile.
Le responsabilità dell’industria della moda
L’industria della moda è responsabile dell’8-10% delle emissioni di carbonio globali, produce quasi il 20% delle acque di scarico e consuma più energia del settore aeronautico. L’abbigliamento ha una catena di fornitura molto complessa, che rende difficile stimare le emissioni legate alla produzione. A ciò si aggiunge l’inquinamento prodotto dal trasporto e dallo smaltimento dei vestiti, quando i consumatori decidono di disfarsene.
Le Nazioni Unite stimano che per fabbricare un singolo paio di jeans viene utilizzato un chilo di cotone e poiché il cotone cresce in ambienti aridi, produrre un chilo di materiale necessita di 7.500-10.000 litri di acqua. Per capire meglio sarebbero dieci anni di acqua bevuta da una persona. L’esempio dei jeans è emblematico. L’azienda Levi Strauss ha stimato che un paio dei suoi iconici jeans modello 501 producono l’equivalente di 33.4 chili di anidride carbonica durante l’intero processo di vita, lo stesso quantitativo che emettono le macchine americane in 69 miglia di strada.
Un po’ più di un terzo delle emissioni deriva dalla produzione delle fibre e dal pantalone in sé, l’8% dal taglio, dalla cucitura e dalle rifiniture. Il confezionamento, il trasporto e la distribuzione producono il 16% delle emissioni e il restante 40% deriva dall’utilizzo dei consumatori, principalmente dal lavaggio dei jeans.
L’economia circolare per arginare la fast fashion
Negli ultimi anni la fast fashion ha snaturalizzato il mercato della moda, rendendo i prodotti accessibili ad un mercato di massa, a prezzi bassi ma a scapito della qualità, vengono infatti utilizzati tessuti fragili e sintetici. Quindi, più vestiti venduti per i prezzi più bassi ma che durano poco a causa dei materiali scadenti utilizzati. Le conseguenze sull’ambiente sono state molto significative: lo smaltimento dei vestiti oggi produce altissime emissioni di Co2, nonché il rilascio delle micro-plastiche, contenute nei tessuti, direttamente in fiumi e oceani.
Diventa quindi irrinunciabile trovare un paradigma adatto ad arginare le conseguenze. Le 3R, riduzione, riuso e riciclo, sono i tre pilastri su cui si fonda l’economia circolare. A queste si aggiunge la quarta R rifiuto=risorsa, l’oggetto una volta riciclato e arrivato al termine della sua vita, diventa nuovamente rifiuto che si trasforma in risorsa per fabbricare qualcosa di nuovo. Gli obiettivi di questo tipo di economia sono: l’estensione della vita dei prodotti, attraverso l’utilizzo di materie prime di buona qualità, il ri-condizionamento e la riduzione della produzione di rifiuti.
I vantaggi dei vestiti di seconda mano
Il mercato della second-hand fashion negli ultimi due anni ha vissuto un vero e proprio boom. Le vendite globali sono cresciute con una media del 12%. Le nuove generazioni, Millenials e Gen Z, sono molto sensibili ai temi legati alla sostenibilità ambientale e sono consapevoli delle responsabilità dell’industria della moda. Per loro quindi la scelta second-hand non è più solo una scelta estetica ma, al contrario, assume una valenza politica e ambientale. A questo si devono i grandi volumi di vendita di questo settore.
L’impatto dell’online
Oltre ai negozi, ai mercati e alle bancarelle, oggi esistono innumerevoli siti di rivendita di vestiti vintage, che arrivano a guadagnare fino a 300 milioni di dollari l’anno. Molte piattaforme e-commerce nate negli ultimi anni vendono second hand luxury. Vestiaire Collective, con 3.5 milioni di acquirenti, è una nota piattaforma che vende articoli di lusso di seconda mano. Vide Dressing, un altro e-commerce, gestisce la compra-vendita di lusso, con 30.000 articoli venduti al mese.
Solo nel 2018, gli utenti di queste piattaforme digitali hanno potenzialmente risparmiato 20,4 tonnellate di Co2, 1,1 milioni di tonnellate di plastica e 7,2 milioni di tonnellate di acciaio. Alcune ricerche hanno anche suggerito che lo shopping online riduce l’impatto degli acquisiti in termini di anidride carbonica, rispetto al recarsi direttamente in negozio per fare gli acquisti.
Al contrario però, l’incremento dello shopping online ha cambiato il comportamento dei consumatori, che oggi tendono a comprare di più rispetto alle necessità, contribuendo alla cultura del fast-fashion. Ciò genera un aumento dei resi che ha un impatto significativo sull’inquinamento, raddoppiando le emissioni derivanti dai trasporti. Il distributore poi, tende a buttare i prodotti che tornano indietro invece che trovare un nuovo cliente interessato. La US Environmental Protection Agency stima che nel 2017 10.2 milioni di tonnellate di tessile finisce in discarica mentre 2.9 milioni di tonnellate sono incenerite.
Di Carola Bernardo